Il linguaggio di genere

04.09.2013 14:05

 

L’agire individuale è profondamente condizionato dal contesto sociale e dalle coordinate culturali dominanti.

La società stessa tende a formare una coscienza comune (norme, valori, ideali, aspettative, desideri, bisogni) in base ad alcuni standards la cui determinazione spesso sfugge ad ogni controllo o progetto storico o sociologico, attraverso prescrizioni non formalizzate ma inconsapevolmente accettate (subite?) e seguite dalla maggioranza.

Tutto ciò che assorbiamo dal contesto che ci circonda assume un’importanza enorme nella sfera psicologica  e sulla formazione della nostra coscienza, sia personale che collettiva.

Ciò significa che le nostre concezioni sulle cose del mondo assumono una forma in base alle influenze culturali. E quanto più una società è solida ed omogenea, replicativa nella comunicazione, tanto più è forte e formante la sua Cultura e più profondamente incidono i suoi messaggi.

Lo strumento che media questa incidenza è la Comunicazione, ed il Linguaggio è la modalità attraverso la quale passa ogni comunicazione.

Ma il Linguaggio è anche uno dei sistemi attraverso cui viene rappresentata la realtà, per cui appare evidente come esso possa in qualche modo anche, in virtù di questa sua potenza evocativa, influenzare l’ordine stesso della realtà, o meglio, di quello che noi pensiamo essere la realtà.

Infatti, con l’abitudine, molte cose nuove ed artificiali assumono una forma familiare; analogamente, le costruzioni culturali divengono, nel tempo, patrimonio naturale. L’abitudine viene realizzata dalla replicazione del messaggio.

Nel momento in cui la visione della vita ha incominciato a mettere da parte il ruolo dominante della donna ed il matriarcato ha segnato il passo nelle società occidentali, il pensiero maschile si è imposto come dominante, prevalendo anche nelle scelte simboliche.

Se osserviamo la più evidente forma di simbolismo del regno umano, il sistema del Linguaggio, notiamo che il genere maschile si è imposto come universale neutro, sottraendo alle donne l’accesso ad una espressività simbolica che ne mantenesse la “visibilità”. Nel mondo, insomma, tutto ciò che non era evidentemente ascrivibile ad uno dei due generi, maschile o femminile, per proprietà biologiche o per consuetudine acquisita, rientrava in una categoria neutra, alla quale si associava un termine “maschile”.

Questa abitudine linguistica ha reso naturale quindi una egemonia maschile che si è imposta nel tempo come espressione simbolica, appunto, di un determinato ordine sociale, razionale e plausibile, avallato da una cultura che andava sempre più favorendo una distinzione tra i generi secondo una scala di “importanza”. E’ ovvio che la più diffusa espressione maschile nei termini, infatti, favorisce l’evocazione di una posizione di supremazia.

Questo indica che il sapere che assumiamo come naturale, ossia insito nella natura stessa del mondo, ma che, in fondo, è spesso solo l’esito di una corrente storica particolare, l’espressione parziale di un particolare assetto sociale,  possiede  quindi una forte connotazione socioculturale.

In questo ambito, la tendenza femminista che ha determinato quel particolare fenomeno che ha visto negli ultimi tempi il proliferare di “strani” neologismi (consigliera, giudicessa, avvocata, ingegnera, magistrata, notaia, prefetta, carabiniera), vuole fornire, quindi, così, linguaggi alternativi, che concorrano a ripensare in termini rinnovati la realtà, e quindi l’ordine sociale.

La messa in discussione dell’identificazione di quella categoria neutra di cui parlavo prima con il maschile significa, a mio avviso, la rivendicazione di una visibilità, di una consapevolezza di uguaglianza tra i due generi, di una parità di sostanza che si esprime anche nella manifestazione simbolica.

Essa suggerisce così una prospettiva diversa, non più dettata dall’abitudine, esplicitando una realtà sociale duplice, nella quale il maschile ed il femminile assumono una dignità paritaria.

In questa dimensione la differenza tra i due sessi deve però acquistare una forma meno polemica, meno contrapposta, meno sottoposta alle ragioni della forza e del predominio, delle rivendicazioni e della conquista di “spazi vitali”, percorrendo invece una direzione secondo percorsi esteriori diversi, ma che abbiano una destinazione interiore comune, che è quella della complementarietà e della riunificazione.