Le "incomprensioni": dal mobbing misto al doppio mobbing
Un aspetto preliminare che vorrei semplicemente sfiorare, e che tocca la mia coscienza di psichiatra allorchè mi ritrovo di fronte a casi clinici che possono configurare una condizione di mobbing, è quello relativo al confine esistente tra una persecuzione reale ed una costruzione soggettiva operata da parte di un carattere velatamente paranoide. A volte, infatti, ci si trova dinanzi a condotte mobbizzanti circolari che rappresentano l’evoluzione di una condizione che nasce, almeno inizialmente, da un substrato psicopatologico indipendente e che si autoalimenta attraverso una responsabilità, mi sento di asserire, condivisa da ambedue le parti in gioco (mobbizzato e mobber): uno stato di burn-out, una predisposizione caratteriale troppo incline ad una eccessiva sospettosità, ad una spiccata diffidenza, ad una litigiosità rivendicativa. In questo caso il “fenomeno mobbing” perde alcune sue caratteristiche, laddove esso, invece, possiede degli elementi distintivi ben definiti e nasce da comportamenti vessatori reiterati, chiari, evidenti, non ambigui, specificamente indirizzati secondo uno scopo determinato.
Il mobbing è un fenomeno sempre esistito, ma solo in tempi relativamente recenti sistematizzato come entità specifica, riferibile, secondo la definizione della Psicologia del Lavoro, ad una “situazione lavorativa di qualità sistemica, persistente ed in costante progresso, in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio, da parte di uno più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità”.
Da questa definizione possiamo trarre gli elementi costitutivi del mobbing, differenziandolo da altre forme, ugualmente esperibili sempre in ambito lavorativo, di disagio psichico oppure di violenza psicologica commesse nei confronti di soggetti più deboli. La coesistenza quotidiana e prolungata nello stesso ambiente produce delle dinamiche relazionali dalle quali è quasi inevitabile che non possano scaturire controversie, incomprensioni o piccole competizioni isolate e circoscritte nel tempo, espressione dell’emergere di tratti caratteriali tipici e distinti, propri dei vari costituenti il miscrosistema (gruppo di lavoro). Si tratta di condizioni normali, funzionali per il buon andamento del gruppo e per l’abreazione delle fisiologiche tensioni che si verificano all’interno di un qualsiasi sistema chiuso; non possiedono carattere di sistematicità, né hanno un obiettivo predeterminato, ed ancora sono contraddistinte generalmente da un carattere di reciprocità. Analogamente, altre forme di violenza psicologica esulano anch’esse dal fenomeno mobbing, sia perché non avvengono all’interno del contesto lavorativo e possono anche comprendere violenze fisiche (bullismo), sia perché isolate e non continue (molestie morali, come per esempio abusi a connotazione sessuale o di discriminazione razziale).
Il mobbing è invece costituito da una serie di comportamenti vessatori attuati con sistematicità continua, per lungo tempo, mediante condotte comunicative accomunate da uno scopo specifico ed in genere non dichiarato, consistente nell’isolamento sociale, nell’emarginazione e nell’esclusione del lavoratore dal gruppo.
Le condotte che possono causare mobbing sono diversissime e variano da attacchi all’immagine personale, privata, professionale o sociale, della vittima, ad attacchi alla sua possibilità di relazionarsi con gli altri: rimproveri, ipercriticismo, minacce, allusioni malevole, sarcasmi, rifiuti o costrizioni, emarginazione, demansionamenti.
Non esiste una tipologia particolare di persone che può con maggiore probabilità di un’altra divenire vittima di mobbing, poiché il suo verificarsi non dipende tanto dalle caratteristiche individuali (ritengo: se non in una certa misura, spesso trascurabile), ma da un complesso di determinanti che investe sia l’organizzazione del gruppo, che l’appropriatezza del management, sia il livello di stress sistemico, che piccoli e poco significativi eventi relazionali (promozioni, nuovi arrivi, gelosie, ecc.).
Spesso le dinamiche sistemiche sfuggono al controllo consapevole dei singoli, determinando quelle atmosfere di complicità conflittuale che realizzano un fertile terreno per lo sviluppo di una condizione di mobbing (orizzontale), nelle quali la vittima viene individuata generalmente per motivi casuali.
Dei quattro tipi di mobbing classificati a tutt’oggi, mi occuperò principalmente del mobbing misto, poiché a mio avviso rappresenta la forma di vessazione più terrificante e devastante il complesso psicologico ed esistenziale della vittima. Quest’ultima, infatti, percepisce l’aggressione provenire da tutte le direzioni, dai superiori e dai pari, per cui si sente sola contro tutti, e col tempo struttura un vissuto di fallimento e di autoaccusa che investe tutta l’immagine di sé. La vittima designata esperisce una serie di emozioni negative che minano nel profondo della sua interiorità tutta la percezione di sé, sminuendo e svalutando la totalità della sua personalità.
Particolarmente, è questo tipo di mobbing combinato che può determinare ancora un’altra conseguenza angosciosa, che definiamo “doppio mobbing”: la vittima trasferisce il suo disagio lavorativo anche in famiglia, alla quale chiede aiuto e dalla quale si aspetta sostegno. Ma qui, col cristallizzarsi del logorio, l’immagine stessa della vittima viene ancora una volta, e più significativamente, intaccata: essa viene considerata un debole, un fallito, una personalità che non solo viene scarsamente tenuta in considerazione dai superiori, ma che non è in grado nemmeno di mantenere la stima e la solidarietà dei colleghi, che gli sono anch’essi, invece, ostili e che la dileggiano.
Il mobbing misto, o combinato, si realizza attraverso la sommatoria, esponenziale e non aritmetica, della forma discendente e di quella orizzontale.
Le azioni persecutorie perpetrate da un superiore vengono in questo caso alimentate ed amplificate da atteggiamenti palesemente vessatori o subdolamente dannosi e denigratori da parte di colleghi.
All’interno del microsistema lavorativo, in maniera più o meno evidente, si struttura progressivamente una conflittualità quotidiana che si esprime con manifestazioni scherzose, ironiche o sarcastiche, con piccoli attacchi e meschinerie più o meno mascherate. Piccole “cattiverie innocenti” trovano spesso l’obiettivo in un nuovo arrivo, o in un collega “antipatico”, o più brillante, verso cui nascono gelosie ed invidie inconfessate, oppure emergono in un clima saturo di una sorta di noia da monotona consuetudine, od anche pervaso da uno stress dovuto ad una inappropriata organizzazione del lavoro.
Se l’ “oggetto” è già vittima di vessazioni da parte di un superiore, la sua immagine può già apparire svalutata ed i colleghi ne colgono la debolezza e la fragilità, attaccandone i punti vulnerabili. La continuità degli attacchi aggressivi isola sempre di più la vittima e la diffusione dei comportamenti, delle opinioni gratuite, delle comunicazioni deformanti e denigratorie costruiscono col tempo un “mito negativo”, dal quale la vittima non ha più la possibilità di sfuggire. Ecco che essa incomincia ad esprimere sentimenti di incapacità, di inadeguatezza, di autosvalutazione, di autodisistima, di autobiasimo, di frustrazione, addirittura di colpa, con conseguenti sintomi di depressione, di disforia e di ansia psicosomatica.