Potere e dipendenza: il senso degli affetti

04.09.2013 14:15

 

Leggo in E. Bulwer Lytton (“Darnley”, Atto II, Scena I) una affermazione sostanzialmente disillusa circa la disposizione sentimentale verso “l’altro”: “Che cos’è l’affetto, se non il potere di tormentarci che diamo a un altro?”.

E’ chiaro che in questa frase si racchiudono diversi concetti psicologici che costituiscono dinamiche intorno alle quali si struttura buona parte della nostra esperienza esistenziale. Possiamo cogliervi, infatti, l’aspetto affettivo ed emozionale, l’attitudine al potere e l’inclinazione al masochismo, la tendenza a trasferire su altri la responsabilità dei nostri stati d’animo, l’orientamento verso la dipendenza.

Il senso del potere pervade più o meno esplicitamente tutte le relazioni, determinando spesso la motivazione all’agire ed influenzando in modo notevole anche il comportamento. L’emozione che deriva dall’esperienza della propria “forza” si avvicina moltissimo all’esperienza di felicità e di piacere e determina una interiorità particolare che nutre di sostanza vitale il bisogno personale di autostima, accrescendo così la percezione del proprio valore. Anche se ammettere questo desiderio può senza dubbio comportare “rimorsi” di ordine morale, poiché contrario ad altri valori, quali la solidarietà, l’altruismo, la tenerezza, l’attenzione verso il simile, l’affetto disinteressato…è pur vero che ogni persona, per legge naturale, è soddisfatta dal provare sentimenti di potere anziché di impotenza, di forza anziché di debolezza, di orgoglio anziché di umiliazione o di sottomissione.

E’ paradossale, tuttavia, che a volte una tale disposizione possa apparire, invece, come una resa incondizionata, poiché in effetti, ritornando alla frase iniziale di Lytton, si rischia di delegare ad altri la capacità di condizionare la nostra vita emotiva – e non solo -, esperendo in tal modo proprio quelle sensazioni che derivano dall’avvilimento personale.

La delega di questa capacità, cioè l’attribuzione ad altri di una ascendenza su di noi, non esprime poi, in fondo, che un bisogno di dipendenza.

Ritroviamo anche in questo caso la fondamentale ambivalenza che pervade l’essere umano. L’uomo è una costellazione molto complessa di pensieri e di emozioni e nella sua mente coesistono sempre aspetti psicologici multiformi e spesso contraddittori. Come spiegarsi altrimenti questa concomitanza di tendenza al potere (al dominio sull’altro) e di tendenza alla dipendenza (all’appoggio sull’altro)? Ambedue gli aspetti, tuttavia, credo che esprimano una modalità di autopercezione pervasa fondamentalmente dalla più o meno consapevolezza di una fragilità interiore, di una insicurezza di base che può a sua volta assumere sia un significato costruttivo e creativo che un senso di disagio e di limitazione.

L’idea dell’insicurezza, trasposta sul piano culturale, spinge infatti verso la curiosità, l’esplorazione, la ricerca della conoscenza, e sul piano comportamentale alla ricerca di relazioni interpersonali, all’aggregazione ed alla disposizione verso l’altro.

D’altronde, però, può anche slatentizzare ed estremizzare una sensazione di autosvalutazione. Chi si ritrova a credere, ossessivamente, di non essere in grado di pensare autonomamente, di godere, di agire, di decidere e di vivere senza l’appoggio dell’altro, il supporto e la forza che solo nell’altro riesce a cogliere, attua un tale comportamento nella convinzione che la fonte del bene si ritrova soltanto all’esterno di se stesso e ciò produce atteggiamenti esistenziali caratterizzati da strategie rivolte sì verso gli altri , ma con uno scopo autoprotettivo, autonomo e soggettivo, inconsapevolmente egoistico, che si realizza all’interno della cornice di un immaginario scambio, svalutando conseguentemente tutto il proprio essere.

In questo contesto “utilitaristico” la preoccupazione di perdere la vicinanza e l’appoggio dell’altro produce poi condotte ed atteggiamenti tesi alla sistematica ricerca di conferme e rassicurazioni che non hanno nulla a che vedere, in una prospettiva squisitamente psicodinamica, inconscia e pertanto comprensibile ed ammissibile dal punto di vista “morale”, con l’autenticità manifesta di un rapporto.

La dedizione all’altro, le rinunce, i sacrifici, l’acquiescenza non rientrano, in questo caso, nella nobile sfera dell’”offerta di sé”, ossia della ricerca della cura e dell’attenzione rivolte verso il bene dell’altro, ma obbediscono piuttosto all’ansiosa preoccupazione di gratificare il proprio bisogno di sicurezza.

Spero sia evidente che dall’analisi di questo scritto emerga che stiamo trattando di “bisogni”, ossia di aspetti psicologici universali ed inconsci, che nulla hanno a che vedere, come già detto, con il senso della morale e della “spontaneità consapevole” di determinati comportamenti relazionali. Il sentimento che lega le relazioni umane rimane sempre, tuttavia, un fenomeno meraviglioso, la cui “bellezza e poesia” nessuna conoscenza o spiegazione sarà mai in grado di offuscare con la sua arida scientificità.

L’amicizia, l’amore, l’affetto sono espressioni umane diffuse e naturali e ciò che è importante, nell’economia di una relazione, non sono tanto le spinte inconsce che possono indurre determinati comportamenti, ma la coscienza autentica del “provare” tali sentimenti e di agirli pienamente nei confronti dell’altro, assumendo e comprendendo se stessi e gli altri per quello che si è. Il sentimento di relazione, che si tratti di affetto, di amicizia o di amore è tale in quanto si è liberi e si è scelto di donarsi, soffrendo con l’altro e gioendo con l’altro, in una parola, “sentendo insieme”.

Tutto ciò che sta “sotto” è utile soltanto in una prospettiva terapeutica e specialistica e soltanto quando emergono disagio e sofferenza. Andare ad analizzare a fondo ogni motivazione “profonda” di un comportamento o di un atteggiamento, comporta soltanto una inutile, ma spesso dannosa, “psicologizzazione” della vita.