Sull'identità femminile: ritorno all'antico

05.09.2013 18:42

 

      Da quanto abbiamo ascoltato finora risalta in modo chiaro che è tuttora vivo e presente, anche se sembrava sopito dopo le forti dimostrazioni sessantottine e femministe, il fermento culturale che coinvolge la figura femminile e, ancora, la ricerca, di una sua propria identità.

      In ogni aspetto della vita, la maturazione è un processo evolutivo che per natura propria è caratterizzato da esperienze travagliate, e soprattutto da una crisi che segna la fine di un “qualcosa” e l’inizio di un “altro qualcosa”.

      Noi non dobbiamo necessariamente connotare questo termine con aspetti negativi, anzi la Storia ci insegna che le maggiori conquiste del genere umano sono sempre state contrassegnate da un periodo di crisi, e che una crisi segna sempre una fase di passaggio verso una condizione nuova ed un equilibrio migliore.

      D’altra parte, se l’equilibrio fosse stato soddisfacente non si sarebbe messo in discussione nulla.

      In generale è la percezione di nuovi entusiasmi e di nuove prospettive ciò che accompagna l’emergere di sussulti culturali che si propongono di trasformare uno stato di cose consolidato ma non completamente soddisfacente e spesso queste emozioni offuscano l’ignoto verso cui ci si sta indirizzando, ignoto che comprende non solo le nuove possibilità, ma anche i rischi di un disorientamento, di una precarietà, di una mancanza di punti di riferimento e di paradigmi conosciuti e rassicuranti.

      Ignoto che, parallelamente alla messa in discussione della realtà esterna, decostruisce anche l’immagine personale che fino a quel punto ognuno di noi aveva di se stesso.

      A volte, ancora, dopo gli entusiasmi iniziali e le attese legittime, il confronto con il Sistema, che, malgrado la volontà e le intenzioni dei singoli, segue sue leggi proprie e indipendenti, produce importanti stati di frustrazione di fronte ad una realtà che non corrisponde completamente alle aspettative immaginate.

      Se vogliamo adoperare una metafora, possiamo richiamarci al periodo di passaggio dagli entusiasmi onnipotenti dell’età adolescenziale alla crisi quasi nichilista che accompagna l’affacciarsi alla prima età adulta.

      L’immagine femminile ha subito uno di questi passaggi, specialmente negli ultimi decenni del secolo scorso.

      Il femminismo, specialmente nelle società occidentali, ha determinato una trasformazione radicale nel mondo femminile, trasformazione che ha modificato in maniera significativa la consapevolezza esistenziale della donna, come abbiamo visto, la quale ha acquisito la forza di poter lottare per rivendicare ed affermare i propri diritti di genere.

      L’epoca del femminismo durò fino alla fine degli anni settanta, mentre verso la metà degli anni ottanta cominciò a manifestarsi ciò che comunemente viene definito post-femminismo.

      Analizzando a fondo questo argomento, possiamo rintracciarvi essenzialmente due prospettive concettuali.

      La prima è quella che tende a valorizzare l’identità femminile separandola e distinguendola da quella maschile e rivendicandone la diversità e l’originalità.

      La seconda, invece, in nome di una sacrosanta parità umana, è quella che tende verso l’identificazione dei sessi, identificazione che, giocoforza, conduce però alla perdita dell’identità femminile nella sua unicità, genere sempre più propenso a “mascolinizzarsi”, ad acquisire cioè prerogative proprie del genere maschile.

      Ma la natura umana è duplice e la dualità espressa dal maschile e dal femminile non è solamente una necessità fisiologica ed indispensabile alla procreazione ed alla perpetuazione della specie.

      Ognuno dei due generi possiede qualità che vanno oltre la fenomenologia fisica e sessuale, qualità che comprendono aspetti psicologici e spirituali che costituiscono rappresentazioni differenti di una Totalità, di un Unico che concretizza l’Essenza dell’Essere umano e del suo Sistema esistenziale.

      In questa luce, il dilemma “uguaglianza contro differenza” mi appare quindi fuorviante, nella misura in cui il senso comune oggi, e parlo principalmente per le società occidentali, ha assodato oramai, almeno negli intenti teorici, la parità tra i generi; non solo, ma soprattutto se teniamo in considerazione l’unicità della Persona come compendio armonico ed equilibrato e degli aspetti maschili e di quelli femminili.

      Correnti filosofiche e fedi religiose, d’altronde, richiamano spessissimo all’originario Androgino, e le teorie psicologiche del profondo si basano frequentemente sulla coesistenza di prerogative maschili e femminili nella psiche di ognuno di noi.

      Carl Gustav Jung descrive un archetipo, una immagine originaria e sovrapersonale, che lui definisce Anima per l’uomo e Animus per la donna.

      Questa immagine rappresenta in sostanza l’atteggiamento interiore di ognuno di noi ed è complementare rispetto alla Persona, che è invece l’espressione esteriore del nostro carattere.

      Ebbene, è proprio in ciò si concretizza quello che intendevo dire riferendomi all’Androgino, ossia alla bisessualità che è racchiusa, psicologicamente, in ogni essere umano, per cui nell’uomo vi è sempre inconsciamente un elemento femminile e, viceversa, nella donna vi è sempre un aspetto maschile.

      Anche se il sesso è una condizione biologica ed anatomica che si differenzia col concepimento e con la nascita, nondimeno la demarcazione e l’acquisizione dell’identità di genere si struttura e si introietta soprattutto con le esperienze educative e con le spinte culturali e sociali.

      La “maggiore industria culturale” del nostro tempo, come viene definita la televisione, unitamente a tutti gli altri strumenti di comunicazione di massa, propone statisticamente una presenza femminile di quantità e solo raramente ne mette in risalto la qualità.

      Questa condizione, suggerita probabilmente da ragioni di mercato a cui però non credo siano estranei anche condizionamenti culturali e retaggi di una radicata tradizione patriarcale, contrasta con la spinta pulsionale della donna di crearsi un’identità propria e nuova, di proporsi cioè come “essere altro” rispetto alla figura maschile.

      Con gli anni, infatti, è la stessa donna che è stata indotta, in virtù del dominio culturale dell’uomo, ad introiettare il modello maschile come modello vincente e conseguentemente, per poter aspirare ad emergere nella società, ella doveva per forza di cose tendere ad imitarlo, facendo coincidere l’immagine femminile con quella maschile.

      Ma la crisi politica, quella economica, quella finanziaria, amplificate dal processo di globalizzazione, hanno coinvolto tutto il  sistema sociale, con trasformazioni imponenti in tutti gli ambiti ed a tutti i livelli, senza distinzione di ceto o di genere.

      La crisi e la rottura di equilibri consolidati, anche se insoddisfacenti, non ha risparmiato nessuno, sia esso uomo che donna, ma certo, per ragioni storiche, le donne hanno risentito maggiormente di questa crisi di identità, di questo senso di precarietà e di disorientamento generale, e probabilmente proprio per questo nell’ultimo decennio del secolo scorso vi è stato un ritorno alla differenziazione dei generi, nella ricerca di una identità femminile strutturata e definita.

      E’ quanto avvenuto fin dalla metà degli anni novanta, con la rivalutazione della differenziazione sessuale, diversificazione che, tuttavia, a causa dei condizionamenti misogeni in apparenza superati ma sempre pronti a risorgere dalle loro ceneri, rischia di cristallizzare un pensiero improntato invece sempre sulla subordinazione e non sulla complementarietà e l’integrazione.

      Io credo che non sia estraneo a tutto questo, a volte, lo stesso atteggiamento della donna, la quale si ritrova ad accettare un riconoscimento parziale nell’attesa di veder riconosciuti pienamente i propri diritti.

      Un esempio di ciò potrebbero essere le cosiddette “quote rosa”, un concetto che a ben vedere certifica quasi uno stato di debolezza del genere femminile, debolezza che sancisce, come corollario, la necessità di protezione per riuscire ad emergere.

      Io ritengo, alla fine, che la realtà sociale debba esprimere la duplicità sessuale di cui è composta, su basi di pari dignità ma anche sulla valorizzazione delle prerogative e delle qualità insite in ognuno dei due generi, poiché il senso di disorientamento è indistinto.

      In quest’ottica, ritengo che la via giusta è quella di acquisire l’identità di Persona, più che l’identità di genere, rivalutando tutti quegli aspetti comuni dell’Essere umano nella sua totalità, totalità fatta di tutte le qualità che comunemente, e senz’altro superficialmente, tendiamo ad attribuire in maniera quasi esclusiva ad un genere piuttosto che all’altro.

      Ma vi è un “quasi” in ciò che ho detto, un “quasi” che suggerisce a tutti coloro che sanno guardare alle cose con mente libera che in ognuno di noi esiste il maschile e il femminile e che solamente prendendo coscienza dell’ambivalenza e della complementarietà della natura umana è possibile superare conflitti psicologici e sociali e raggiungere l’armonia e l’equilibrio.

      Il superamento delle contrapposizioni e il riconoscimento della diversità è l’unico modo per raggiungere la consapevolezza che Uomo e Donna sono espressioni ed aspetti diversi di un’originaria e divina armonia del mondo e della natura.