Sulla tortura nel mondo (intervento per Amnesty International)

05.09.2013 19:17

      Io credo che sia doveroso per ogni uomo chiedersi, innanzi alla propria coscienza, di fronte alle immagini ed alle notizie che continuamente ci giungono dai mezzi di comunicazione e dalle associazioni, come Amnesty International, al di là del “come” possano ancora accadere efferatezze crudeli e disumane, che ledono la dignità ed il valore stesso dell’essere e dell’esistere, del “perché” ciò succeda, da quali profonde radici psicologiche possano originare le spinte che inducono a perseguire la violenza come mezzo per assumere e mantenere il potere.

 

      Se da un lato è da considerare la struttura mentale dell’uomo o del gruppo ristretto che assume il predominio, dall’altro occorre, però, tenere anche presenti le profonde tendenze inconsce che spingono le masse, talora, quasi a “scegliere” l’assoggettamento, come forma di affidamento ad altri, più forti, della cura di sé.

 

      Può sembrare paradossale, ma spesso l’origine di un regime trova un terreno particolarmente favorevole nella stessa popolazione che poi diverrà oggetto delle crudeltà e delle persecuzioni.

 

      La folla è un corpo unico, dominato dalle forze dell’inconscio, irrazionale ed acritico.

 

      La massa, non avendo una coscienza ed una consapevolezza di pensiero singolare, quindi, non possiede idee proprie, ma tende ad assumere e ad assimilare idee già fatte, spesso sottilmente e subdolamente imposte, fascinosamente, specialmente se queste possiedono una profonda carica emotiva ed una forte componente idealistica.

 

      Nei grandi gruppi i confini delle singole individualità vengono meno, si affievoliscono le capacità critiche, anche quelle di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, e si sviluppano di contro un enorme senso di appartenenza ed una solida identità collettiva, a discapito delle prerogative del “pensare” e del “sentire”personale.

 

      Ma come si può giungere a tutto questo?

 

      Come è possibile che ci si possa totalmente identificare in una moltitudine?

 

      E come, ancor più, nel simbolo che se ne assume la rappresentanza?

 

      Si verifica forse una enorme atmosfera di suggestione ipnotica, che inibisce la coscienza e fa emergere invece le emozioni e gli istinti inconsci?

 

      Freud attribuisce la forza della coesione delle masse ad una naturale disposizione umana a riversare l’energia psichica su una figura significativa, amata e temuta nello stesso tempo, onnipotente e protettiva, come è il padre per i piccoli bambini.

 

      Per Jung, invece, il Capo, il Dittatore assume un valore del tutto particolare, connotandosi come simbolo, universale e primordiale, del Vecchio saggio o dell’Eroe, di una figura cioè che incarna l’essenza della guida, del profeta che trascina e dirige le masse all’interno di una cornice entusiastica delirante.

 

      Fromm considera l’uomo come un essere nato per vivere in società, ma che procede verso la sua autorealizzazione attraverso il riscatto dalle primitive dipendenze dalla natura, dai miti, dal clan, da quei legami che tuttavia gli conferiscono sicurezza e senso di appartenenza.

 

      La progressiva emancipazione da questi vincoli produce, però, inevitabilmente, una condizione di incertezza e di solitudine, che rappresenta il prezzo da pagare per la conquistata libertà ed indipendenza.

 

      E la consapevolezza, ora, dei propri limiti, dell’impotenza e del dubbio paralizzante ed angosciante diviene un peso intollerabile ed insopportabile: il peso della responsabilità, da cui l’individuo, riunendosi in collettività, vuole liberarsi, affidandolo al Capo, che deve adesso proteggere, guidare pensare e decidere per tutti, concretizzando infine un regime, possiamo dire, autoritario e totalitario.

 

      Nei grandi totalitarismi, il Capo non è quindi solo un leader politico, ma racchiude in sé, per i seguaci, l’idea stessa di un dio pagano, in cui la folla, il popolo, crede per pura fede religiosa.

 

      Ed una tale figura, dotata ovviamente di una enorme forza carismatica e di una grande sensibilità nel percepire gli umori e le aspettative, talora insinuate con arte raffinata, del popolo, si rende conto dell’immensa potenza rappresentata dalle folle e le utilizza e le sottomette per il suo domino, impiegando la forza sì, ma anche, se non soprattutto, modalità di influenzamento psicologico, stimolando in esse la necessità quasi, che diviene così “naturale” e falsamente spontanea, di doversi addirittura affidare ad una figura forte e protettiva, che pensa ed agisce per loro.

 

      E risulta essenziale,  a questo punto, per mantenere il dominio, ottenere tutto il consenso popolare, cercando di eliminare in ogni modo ogni possibile forma ed espressione del dissenso.

 

      Egli deve creare e simboleggiare il sentimento di identità (nazionale, etnico, politico, militare, ecc.), e separare ed annientare tutto ciò che non vi appartiene, espellere il diverso dal gruppo omogeneo, attraverso persecuzioni implacabili e crudeli, eseguite con strategie precise che usano la violenza in maniera palese, per terrorizzare fisicamente le vittime ed intimidire la popolazione in generale, oppure nascosta, subdola, per annientare psicologicamente il più debole.

 

      La violenza è la messa in atto di un abuso che viola, lede, il diritto e la dignità degli altri come esseri viventi inseriti in un contesto storico civile e sociale.

 

      Essa può assumere due modalità di estrinsecazione, l’una come forma di aggressione e coercizione fisica, l’altra come forma di condizionamento, controllo e dominio mentale e morale.

 

      Psicologicamente trova origine e spiegazione come espressione estrema della pulsione aggressiva inconscia, insita tanto nella struttura psichica individuale quanto nella storia naturale dell’Uomo, come elemento primordiale.

 

      La sociologia vede in essa invece l’apparire di un prodotto dell’attività istituzionale umana, come manifestazione di autoritarismo, di repressione, di esclusione e di segregazione.

 

      In senso filosofico è possibile accostare, adeguatamente, la violenza al sentimento dell’odio come volontà, secondo Aristotele, di distruggere, annientare ed asservire l’avversario.

 

      I Regimi totalitari, usando l’attacco fisico od invadendo la sfera personale attraverso la manipolazione generale dei sentimenti, esprimono in tal modo l’aspetto dell’odio come violenza, o praticano la violenza come pura manifestazione dell’odio, strutturandolo ed organizzandolo come odio politico, militare, di classe, di razza, di religione.

 

      L’aggressività è un istinto fisiologico, connaturato nell’essere vivente, uomo compreso, e la sua espressione abnorme, come esplosione violenta o raffinata tecnica di distruzione psicologica, è purtroppo una componente abituale della società in tutte le epoche, che si espande e si allarga, a dispetto del nostro “essere” e “sentire” razionale, in quanto l’uomo particolarmente è un “animale imitativo”, e purtroppo più nel male che nel bene.

 

      La violenza fisica è quella più appariscente, è quella che ci siamo abituati a riconoscere, è quella delle guerre, delle “pulizie etniche”, delle torture, degli abusi sessuali, del predominio materiale del più forte sul più debole, del potente sul sottomesso.

 

      Ma la violenza psicologica, le prevaricazioni più sottili ed insidiose rivolte tanto sulle masse quanto, ed in maniera più destruente, sui singoli, seppur meno manifesta è più diffusa, meno riconosciuta dai molti, ma più devastante per gli individui, essendo parte, spesso, delle torture fisiche ed inducendo profondi sensi di colpa, perdita del senso di identità personale e modificazione del rapporto con la realtà.

 

      Le continue vessazioni, le minacce, le subdole manipolazioni costituiscono espressioni di violenza psicologica realizzata in genere attraverso meccanismi di “persuasione distruttiva”, forma profondamente intrusiva ed invasiva di controllo mentale teso a dirigere l’orientamento della vittima verso una direzione voluta e prestabilita, con mezzi dunque diversi dalla forza, ma annullando psicologicamente il più debole, con l’obiettivo di assoggettarlo e di carpirne l’”acquiescenza automatica”.

 

      La vittima, a volte totalmente inconsapevole, diviene oggetto di una sottile e diabolica aggressione da parte di un carnefice sconosciuto, talora di un intero sistema.

 

      Essa può essere in grado di percepire tali abusi, ma spesso non riesce ad identificare chiaramente la minaccia, il pericolo, la situazione viziosa in cui sta entrando e nella quale finirà impaludato, quello che gli sta succedendo, ed entra suo malgrado in un gioco letale le cui regole non sono scritte e che non conosce: tutto però appare normale ed innocente, naturale.

 

      In tal modo la realtà delle cose comincia ad avvilupparla, a coinvolgerla inconsapevolmente, e lei inizia ad esprimere sentimenti ambigui, emozioni ambivalenti, un vago senso di inadeguatezza e di disagio indefinibile.

 

      E di tutto ciò, in un’atmosfera di inspiegabile derealizzazione, finisce per colpevolizzare ed attribuire a se stessa la responsabilità della sua condizione e delle sue difficoltà di adattamento, con danni inevitabili alla stima di sé ed alla sua configurazione identificativa.

 

      Altre torture sofisticate, e con profonde ripercussioni sulla sfera psichica, consistono in un isolamento prolungato, nella privazione del sonno, nella deprivazione sensoriale, con allucinazioni, crisi di panico, irrequietezza ed irritabilità, oppure noia ed apatia, effetti psicomotori, scadimento delle funzioni intellettive.

 

      Esseri umani costretti ad un isolamento estremo, confinati in spazi angusti dove mangiare, dormire ed espletare tutte le esigenze fisiologiche, sottoposti a punizioni arbitrarie, a finte esecuzioni, a minacce di morte, senza alcun contatto con la famiglia fatalmente vanno incontro a frustrazioni, umiliazioni, annientamento dell’autostima, della dignità e dell’orgoglio della persona.    

 

      E le torture non agiscono solo sulla singola vittima, ma estendono i loro effetti intimidatori anche sulle famiglie, sulla società, sull’intera comunità.

 

      Conseguenze psicologiche sono presenti anche nelle vittime di torture fisiche, le quali, già al momento dell’atto violento, ma soprattutto nel dopo, acquisiscono talvolta la consapevolezza di essere divenute o di poter divenire “vittime dimenticate”, fantasmi presenti di un ricordo terribile, testimoni solitari di un dolore intimo ed alienante, di una sofferenza morale ed umana vissuta al di fuori dell’umanità stessa, nella propria esclusione, senza significato, senza prospettiva di un possibile riscatto.

 

      Ed in questa condizione, allora, non è umano e naturale da parte della vittima esperire un grande senso di solitudine, un vissuto provato dall’indifferenza, sentimenti di abbandono e di estraneità dal mondo, lontana dagli altri, fuori da ogni senso di solidarietà, disillusa dal genere umano, da quell’umanità che, giorno dopo giorno, tradisce il senso profondo dell’essere “prossimo”?